ESSERE E APPARIRE NEL MONDO DI OGGI
Escono dallo sfondo nero su cui si stagliano e ti vengono incontro un po’ impudiche mostrando tutti i dettagli del loro mostrarsi: i petali si aprono indifesi e talvolta si piegano delicatamente su se stessi mentre i pistilli fanno capolino e le foglie si nascondono. I fiori di Romana Zambon giocano con la bellezza e per farlo cercano la luce ma, stranamente, non per accoglierla su di sé come nutrimento ma per rifletterla con lucida determinazione. In effetti c’è qualcosa di strano in quel lucore cui l’occhio un po’ fatica ad abituarsi perché questi fiori trasmettono sì una loro intensa carnalità, ma nel farlo la sottolineano in modo eccessivo. Se fossero persone diremmo che stanno recitando. Ma siccome non lo sono che cos’è che sottilmente ci turba, quale particolare ci induce a osservarli con sospetto? Lo sguardo scorre sulle venature di un bocciolo di rosa, indaga sulle sfumature del rosso di una camelia, insegue la corolla di un girasole, si sorprende di fronte al viola acceso venato di giallo di un iris. Poi, improvvisa, un’illuminazione e il sospetto si fa certezza di fronte a una rosa troppo bianca, troppo luminosa, troppo immobile nel suo posare: questi non sono fiori veri ma abilmente ricreati in materiale plastico! Romana Zambon ce li propone non per ingannarci ma per porci di fronte all’importante problema del rapporto fra essere ed apparire, di quanto l’imitazione sia incredibilmente verosimile perfino nel riprodurre le imperfezioni e di quanto la realtà possa mostrarsi così sorprendente da essere scambiata per la sua riproduzione artefatta.
Poi la fotografa, con uno scarto improvviso, cambia registro e inserisce altri fiori in cornici particolari: le immagini sono sospese su una base che riproduce altre sue riprese questa volta di bottiglie di plastica abbandonate. Ora il richiamo è evidente ma lo è anche il messaggio perché la fotografia qui ci aiuta a comprendere le due strade di fronte alle quali ci troviamo: abbandonare come rifiuti inquinanti i materiali di cui ci siamo serviti o rifarli nostri per tramutarli in qualcosa capace di trasmetterci il senso della gradevolezza. Un modo per ricordarci che (forse) la bellezza salverà il mondo.
di Roberto Mutti